Proposta Radicale 8 2023
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L’educazione come pratica di libertà

di don Ettore Cannavera

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Liberiamo l’Iran dalla dittatura islamista

di Mohsen Makhmalbaf

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Storie di interrogativi, ansie, emozioni

di Maria Antonietta Farina Coscioni

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L’apologo di Falcone, la mafia, i cretini

di Otello Lupacchini

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Il mio amico e compagno Marco Pannella

di Giuseppe Di Federico

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L’antimafia sia in linea con la Costituzione

di Giovanni Maria Flick

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Il “nostro” cinema, Ugo Tognazzi

di Gualtiero Donati   

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Benigni, condannato da un capolavoro

di Giancarlo Governi 

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L’educazione come pratica di libertà

L’educazione come pratica di libertà

di don Ettore Cannavera

Le feste suscitano sempre emozioni vive, specie quelle natalizie. E poco cambia essere religiosi o laici. Certo, per molti non sono che un pretesto per far girare i soldi per regali e pranzi, ma in questo modo si trascura il buono che feste come queste, mettendo in pausa il tempo, possono offrire: attimi preziosi per rinsaldare i vincoli allentati e per riflettere su ciò che stiamo facendo della nostra vita.

Che senso ha? Quali sono veramente gli ideali che la animano? Ci portano lì dove vorremmo, ci fanno stare bene insieme agli altri? E si armonizzano con quelli che innervano la società e il mondo cui apparteniamo?

Ragionavo su queste cose e il corso dei pensieri lentamente mi riportava a una questione che dopo tanti anni continua ancora a suscitare in me stupore: il credito di cui gode l’idea secondo cui la reclusione – il carcere – sarebbe un bene, uno strumento necessario e utile per attuare quanto prescrive la nostra Costituzione all’articolo 27: la rieducazione del condannato.

Non mi stancherò mai di ricordare che in quell’articolo cruciale non compare la parola “carcere”, ma “pena”. E una pena, si precisa, che ha per fine la rieducazione e chiede dunque che anche chi ha sbagliato possa tornare a offrire il proprio contributo al bene della società di cui fa parte. Una pena che perciò non è castigo, vendetta o umiliazione ma sfida di rinascita, incitamento a ritrovare in sé quel potenziale di giustizia e umanità che sempre vi è racchiuso.

Così pensando comprendevo che in quel breve articolo è racchiusa un’intera, mirabile antropologia. Un’antropologia che crede nell’uomo e ha una profonda fiducia in lui, e sa che anche quando sbaglia conserva enormi potenzialità di bene. Perfino quando sbaglia in modo estremamente grave.

Riflettevo allora come tutta l’esperienza comunitaria della “Collina”, in fondo, non sia se non una lunga, paziente, ostinata sfida alla carcerazione. Perché sappiamo che le sbarre non rendono migliori. Che non si rieduca un ragazzo chiudendolo in una gabbia come una bestiola, circondato da domatori smaliziati che giorno dopo giorno lo ammaestreranno al lessico della violenza. Che non si può restituire quel giovane alla società se giorno dopo giorno gli si instilla che il mondo lo considera uno scarto, un’immondizia.

Non più carcere, dunque. Semmai più funzionale all’obiettivo. Ripensarlo. Per rieducare il giovane che sbaglia occorre l’opposto che tenerlo segregato in una cella: bisogna vivere con lui mattina e sera, trasmettergli il senso della responsabilità e del giusto, insegnargli quanto valga il rispetto delle regole. Solo così si può restituirlo alla vera libertà, che è il fine ultimo cui tende l’attività educante. A chi sostiene che per rieducare serva recludere ricordiamo il motto del pedagogista brasiliano Paulo Freire: “Educare è pratica di libertà”.

Non sono considerazioni astratte, queste. Al contrario, si fondono su un’esperienza concretissima. Tra i tanti giovani e adulti accolti nella nostra comunità nell’arco di ormai ventotto anni ve n’erano di condannati per omicidio, sequestro di persona, traffico internazionale di droga. Tutti, dopo una prima esperienza in carcere, ci sono stati affidati dalla magistratura competente per proseguire l’espiazione penale in un contesto rieducativo e di reinserimento sociale. Non per un malinteso senso di “buonismo” ma proprio per dare pieno compimento al senso che la nostra carta costituzionale attribuisce alla pena. Nella nostra comunità non si ozia come in carcere: si sconta quanto resta della pena e ci si guadagna il pane lavorando. In più ci sono regole ferree da rispettare. E se i ragazzi le violano, tornano in carcere.

Sapete quante volte è successo in ventott’anni? Due.

(articolo tratto dal trimestrale “La Collina”; don Ettore Cannavera, lunga esperienza di cappellano nelle carceri, è il fondatore e animatore della comunità d’accoglienza per giovani che beneficiano di misure alternative al carcere che, anch’essa, si chiama “La Collina”.

Liberiamo l’Iran dalla dittatura islamista

Liberiamo l’Iran dalla dittatura islamista

di Mohsen Makhmalbaf
 

Mohsen Makhmalbaf è un regista, sceneggiatore, produttore iraniano. Nato in un o dei quartieri più poveri di Teheran, a 15 anni si unisce alla milizia rivoluzionaria che si oppone al regime dello Scià Reza Pahlevi. Due anni dopo è arrestato per un assalto a una stazione di polizia e sconta diversi anni di carcere. Padre della regista Samira Makhmalbaf, a partire dal 1981 scrive romanzi e racconti, e l’anno successivo gira il suo primo film, “Nassouh le Répétant”. Autore di una quindicina di lungometraggi vince numerosi premi internazionali con “L’amulante” (1987); “Il ciclista” (1989); “Salam Cinema” (1995), “Pane e fiore” (1996); “Il silenzio” (1998), girato in Tagikistan per aggirare la censura iraniana; “Viaggio a Kandahar” (2001).

Quello che segue è il messaggio inviato all’evento di solidarietà promosso dall’Associazione Nazionale Autori di Cinema che si è tenuto al Nuovo Cinema Aquila di Roma.

 

Cari amici, siete riuniti in solidarietà con la rivoluzione iraniana e per chiedere la scarcerazione dei prigionieri politici, compresi tanti registi. Come sapete, 44 anni fa c’è già stata una rivoluzione contro il regime, che sfortunatamente non ha portato al raggiungimento della democrazia. Anzi, le cose sono via via peggiorate e abbiamo perso le nostre libertà individuali, a causa delle leggi dettate dalla religione. Dopo la rivoluzione in Iran del 1979, al governo si sono radicate le bugie della politica e la propaganda della religione. Contro questa egemonia si è affermato un nuovo corso del cinema iraniano, per mostrare la realtà del nostro Paese e comunicare il sogno della libertà, in particolare la libertà delle donne. Il basilare diritto umano alla libertà, a partire dalla scelta del proprio stile di vita, che è stato rivendicato e gridato nelle strade dell’Iran, non è un desiderio nuovo: lo abbiamo mostrato negli ultimi 40 anni, attraverso i film iraniani, per contrastare la narrazione ufficiale del governo iraniano. Dal punto di vista sociologico, ogni narrazione alternativa, che si oppone a quella egemone, di solito nasce da piccoli gruppi di persone, per poi diventare della maggioranza. Purtroppo, possono volerci generazioni prima che questo sogno si realizzi.

Dato che in Iran non c’è stato un libero partito politico dai primi anni della rivoluzione islamica, nel 1979, gli artisti e, in particolare, i registi cinematografici hanno giocato un ruolo importante per dare voce alla gente. E questa voce è emersa con forza nei loro film, anche se sono stati imprigionati. In questi ultimi 44 anni, noi abbiamo visto crescere diversi movimenti Iran, dal mondo del cinema ai giornalisti, dagli studenti ai lavoratori. Poi il Green movement, che sosteneva il sogno della classe media, fino alla rivoluzione di oggi, chiamata “Donna, vita, libertà”: l’unica rivoluzione delle donne avvenuta nella storia dell’umanità.

Solo negli ultimi quattro mesi, in Iran più di 20mila persone sono state arrestate e torturate, più di 5mila sono state ferite, più di 500 persone sono state uccise, tra cui 70 bambini, e più di 200 sono state rese cieche. Al momento, circa 150 artisti sono a processo, in fasi diverse del procedimento giudiziario: celebrità, uomini di sport, artisti di vario tipo, hanno il divieto di viaggiare all’estero, così che non possano diffondere la voce del popolo iraniano nel mondo. Nella dittatura islamica iraniana, se una donna decide di togliersi il velo e camminare per la strada a capo scoperto, rischia una condanna da 10 fino a 18 anni di carcere. D’altra parte, se un uomo uccide la figlia, solo perché lei si è innamorata e così disonora la famiglia e non rispetta la tradizione islamica, verrà mandato in prigione al massimo per due anni.

Cari amici, siete lì per manifestare la vostra solidarietà ai registi iraniani in carcere, per chiedere la liberazione di Mojgan Inanlou, Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof e di molti altri. La vera libertà per questi artisti si realizzerà davvero solo quando l’Iran sarà liberato dalla dittatura islamista dell’attuale regime. Cari amici, per favore, siate la loro voce per la libertà in tutto il mondo. Grazie.

Storie di interrogativi, ansie, emozioni

Storie di interrogativi, ansie, emozioni

di Maria Antonietta Farina Coscioni

Non ho potuto, e neppure voluto, sottrarmi alla richiesta amichevole di Carmelo Olivella per una prefazione sul controverso intreccio tra vite vissute o sognate. Pensata a Roma, scritta a New York, suggestionata da certe atmosfere che Woody Allen coglie nel suo “Un giorno di pioggia a New York”. Vai a sapere.

Cambiamo nomi e luoghi. Niente Gatsby o Ashleigh, Chan, Pollard, Ted, Francisco, e gli altri protagonisti o comprimari del film. Andiamo all’essenza. Non vi scorgete, nell’intreccio e nell’intrico di questi racconti, le stesse ansie e interrogativi, pulsioni ed emozioni? È quello che mi accade, nello sfogliare e soffermarmi nelle pagine dei racconti di Carmelo.  

Così è andata, con tutta la forza evidentemente dovuta dalla distanza e che si somma alla mia solita emozione quando ricevo un invito di questo tipo.

Quando si leggono le storie di Carmelo e si leggono i titoli uno dietro l’altro, ecco che ci si rende conto che sono in qualche modo legate tra loro e finiscono con il costituire una unica storia. Se le si prende insieme, ecco che finiscono col costituire una unica storia italiana che non si può ignorare se si vuole capire il tempo, i tempi che viviamo. Storie che trasudano di ricordi, emozioni, delusioni, aneddoti. Come quella della “mia” Principessa. 

C’era dunque una principessa. Era molto bella e molto buona. Era una principessa fuori dal comune, non quelle dei regni normali. Una principessa strana, a prima vista. E anche a vederla più volte, tutto sommato. Voleva ma non voleva. Sapeva, ma di un sapere diverso dai soliti saperi di tutte le principesse. Bastava poco per turbarla. Si doveva stare molto attenti a come si parlava con lei. Facilmente si entusiasmava anche per piccole cose.  Una principessa molto sensibile. Certo diversa dalle altre principesse. Lo sapeva? Non lo si è mai capito bene. Guardava e vedeva lontano. Da vicino invece non distingueva bene. Una volta che la incontravi poteva segnarti. La chiamava qualcuno principessa fonte di guai. Ma questa è un’altra storia. La principessa che era sopra le altre principesse non deve sistemare nulla e anche se cade si rialzerà e i lividi non intaccheranno la sua bellezza; di questo non si deve crucciare.  La principessa che era sopra le altre principesse avrà bisogno di tempo. E chi non sa attendere è un suo problema. Ma infine basterà che ascolti il suo cuore e allora vedrà quello che va visto e ignorerà quello che è superfluo”.

Chi leggerà le storie di Carmelo si renderà facilmente conto che tutte si sono aperte e disvelate rendendoci partecipi delle loro verità. Storie che potremmo aver ascoltato o raccontato in una intimità quando l’unica preoccupazione è quella di conversare, di essere onesti con il prossimo e con se stessi, di capire, di farsi capire. Principesse o principi, non necessariamente solo in un giorno di pioggia, a New York.

(Questo testo è la prefazione scritta per il libro “Storie” di Carmelo Olivella in uscita a febbraio

L’apologo di Falcone, la mafia, i cretini

L’apologo di Falcone, la mafia, i cretini

di Otello Lupacchini

Dove comandano le organizzazioni mafiose, i posti di potere sono affidati a dei cretini che fanno spontaneamente ciò di cui la mafia ha bisogno.

Lo spiegò Giovanni Falcone a Marcelle Padovani, prendendo a prestito un apologo di Frank “Tre dita” Coppola, personaggio che in fatto di mafia vantava una qualche esperienza.

Uno dei miei colleghi romani”, racconta Falcone, “nel 1980 va a trovare Frank Coppola, appena arrestato, e lo provoca: ‘Signor Coppola, che cosa è la mafia?’. Il vecchio, che non è nato ieri, ci pensa su e poi ribatte: ‘Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia…”

Qualche incauto emulo del giudice che aprì alle istituzioni la via di nuovi e rigorosi modelli di indagine oltre che di nuovi principi legislativi e di organizzazione giudiziaria nella lotta contro la mafia, dovrebbe riflettere molto su questo apologo. Magari eviterebbe così di far la fine della povera rana, la quale, in un prato, avendo notò bue e, presa da invidia per una mole così imponente, gonfiò la pelle rugosa, più e più volte, sperando di superare il bue stesso in grandezza, col risultato che, alla fine, rimase a terra con il corpo scoppiato.

(Introduzione al libro “Chi sbaglia paga”, di Sergio Abis, Chiarelettere edizioni)  

Il mio amico e compagno Marco Pannella

Il mio amico e compagno Marco Pannella

di Giuseppe Di Federico

Ricordare Pannella e dare un’idea dell’ampiezza dei suoi interessi riformatori è impossibile ed è anche per me, per tutti noi, occasione di inconsolabile rimpianto. 

Il mio rapporto di tipo personale con Pannella ha avuto inizio nel 1986 nel corso della Conferenza nazionale per la giustizia organizzata dal Ministero della giustizia nei locali della Fiera di Bologna (eravamo proprio nel periodo del processo Tortora). Fino ad allora avevo partecipato attivamente ad alcune iniziative del Partito Radicale come quelle dei referendum su divorzio ed aborto, ma non avevo mai incontrato personalmente Pannella. A partire da quell’evento si verificò, per così dire, un salto di qualità nel mio rapporto con Marco Pannella e col Partito Radicale.  

Ricordo che nel corso di quel Convegno Pannella convocò una specie di contro-convegno occupando abusivamente un altro ampio locale della Fiera (un comportamento tipico del suo agire, della sua capacità di improvvisare). Nel mio intervento parlai dell’anomalo assetto del nostro Pubblico Ministero e del pericolo che rappresentava per la protezione  dei diritti civili nell’ambito processuale, di come l’inapplicabile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale trasformasse ipso iure qualsiasi iniziativa del PM in un atto dovuto sollevandolo da qualsiasi responsabilità anche quando le sue iniziative avevano creato danni irreparabili allo status sociale, politico, economico, familiare e della stessa salute a un cittadino innocente. Tornato nell’aula del convegno Pannella condusse un attacco molto duro al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e sull’esigenza di tutelare il cittadino nel processo penale citando anche quanto da me detto.

  Dopo di allora l’obbligatorietà dell’azione penale e le disfunzioni che generava divenne per lui un tema ricorrente. Da semplice simpatizzante del Partito Radicale io divenni da quel momento una specie di esperto in materia di ordinamento giudiziario per il Partito Radicale e, cosa che soprattutto mi piace ricordare, anche un amico personale di Marco. 

Non mancava mai di sollecitarmi ad intervenire in tutti congressi del Partito sulle riforme giudiziarie e a contribuire alle iniziative referendarie in materia di giustizia. Non solo. Più volte ho avuto occasione di discutere con Pannella anche di molti altri aspetti del funzionamento del nostro assetto giudiziario che hanno caratteristiche marcatamente anomale rispetto a quelle degli altri paesi a consolidata democrazia e su cui non era possibile intervenire con iniziative referendarie: non solo l’anomalo assetto del PM cui ho dianzi accennato ma anche l’anomalo assetto della nostra Corte costituzionale (“Cupola mafiosa”, la definiva Marco) in cui solo un terzo dei componenti viene designato da organismi legittimati dal voto popolare, a differenza di quanto avviene in tutti gli altri paesi democratici sia di Civil law che di Common law: Francia, Germania Spagna, USA, e così via. 

Ricordo che i nostri colloqui sulla giustizia (non molti per la verità e certamente non quanti avrei voluto) avevano solitamente luogo negli orari in cui la frenetica attività di Marco doveva di necessità rallentare e cioè nelle ultime ore del giorno e nelle prime di quello successivo.  Ricordo che l’ultimo di questi incontri avvenne in margine ad un convegno del Partito Radicale tenutosi a Giulianova nel 2013, incontro iniziato a tavola e terminato all’aperto, per le sua esigenze di accanito fumatore, alle 3 del mattino per colpa mia e ancora me ne pento: ero sfinito e lui era ancora pieno di energia, tanto che successivamente si recò in un altro albergo per parlare con un gruppo di radicali appena giunto da Roma.

Quanto detto sinora mi suggerisce due riflessioni: 

La prima: gli aspetti dell’assetto giudiziario di cui Pannella si è più interessato negli anni 1980/90 sono aspetti di natura ordinamentale, cioè aspetti che a quel tempo non erano considerati come rilevanti non solo dai politici (forse anche perché timorosi dei magistrati) ma neppure dal mondo accademico e dall’avvocatura  Nel promuovere a livello politico con molti anni di anticipo l’interesse per quei temi  Pannella ha certamente avuto un ruolo importante: di quei problemi infatti ora ne parlano in molti anche se finora sono tutti rimasti sostanzialmente irrisolti: responsabilizzazione del PM, mancanza di garanzie sulle qualificazioni professionali dei nostri magistrati, attività extragiudiziarie che vedono i magistrati attivi in tutti i gangli decisionali dello Stato, con pregiudizio per il corretto funzionamento della divisione dei poteri e della stessa indipendenza della magistratura. Di questi specifici problemi ordinamentali non molto si dice nel Recovery plan anche se si afferma che su alcuni di essi vi sono commissioni ministeriali al lavoro. 

La seconda riflessione: solo in alcuni casi i referendum abrogativi possono essere pienamente risolutivi (come quelli di aborto, divorzio) a volta non lo sono anche se sembra che lo siano (come avvenuto per il referendum sulla responsabilità civile, reso inefficace dalla legge attuativa). Pannella era pienamente cosciente di questo ed a volte proponeva temi referendari per far discutere pubblicamente questioni non affrontate dal referendum. 

Quando si decise di effettuare il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati io avrei preferito altri temi di respiro più ampio. Lui chiuse la discussione dicendo, sibillinamente “vedrai”. Nel corso del dibattito su quel referendum di responsabilità civile si parlò poco (tranne che nei convegni dei magistrati e degli accademici). Fu invece la prima occasione di un dibattito pubblico sulle carenza di protezione dei diritti civili nell’ambito del processo penale: irresponsabili iniziative dei PM, ingiustificate detenzioni preventive, solidarietà corporative tra PM e giudici, e così via.  

Consentitemi infine un ricordo personale. Forse a cementare il rapporto di amicizia con Pannella vi fu non solo il comune interesse per le riforme della nostra giustizia ma anche la comune origine abruzzese, quell’abruzzesità (così la chiamava lui) cui tanto teneva. A volte la ricordava a me e agli altri che erano presenti rivolgendosi a me in pubblico con allocuzioni dialettali, come ad esempio manifestando il suo piacere di rivedermi dicendomi ad alta voce “u che s’iccis” (che tu sia ucciso, un ruvido ma affettuoso saluto una volta scherzosamente usato tra amici nel nostro Abruzzo).

L’antimafia sia in linea con la Costituzione

L’antimafia sia in linea con la Costituzione

di Giovanni Maria Flick

Diritto e attualità. La cattura di Matteo Messina Denaro ripropone un interrogativo di fondo sulla giustizia penale e sui confini entro i quali deve concentrare la propria azione. I rischi e le tentazioni di strumentalizzare la cattura di Matteo Messina Denaro sono forti e ricalcano in parte i toni e i contenuti di un recente dibattito tra il giornalista Alessandro Barbano e il Procuratore Nazionale Antimafia Giovanni Melillo in occasione della presentazione del libro scritto dal primo, “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”.

In sintesi Barbano ha analizzato quelle che definisce le contraddizioni del c.d. Codice Antimafia, motivandole attraverso il richiamo a una minuziosa e clamorosa serie di errori (effettivi o presunti) nella sua applicazione. È arrivato a una conclusione da lui stesso definita “impegnativa (…) l’Antimafia, intesa nella sua complessa realtà istituzionale e simbolica, nella sua operatività e nel suo racconto, è un inganno… in senso politico e non morale… al netto della buona fede e dell’impegno” di quanti combattono il crimine.

Barbano ha concluso che l’Antimafia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; che essa ha superato i confini della legalità, con il ricorso alle misure emergenziali, alla cultura del sospetto; alla compressione delle garanzie, alla delazione, alla ricerca di un consenso fondato sull’allarmismo e sul degrado della cultura giuridica e sulla perdita del principio di legalità e di tassatività delle norme giuridiche, con il sostegno di un processo mediatico e di un “moralismo intransigente” delle organizzazioni di volontariato come Libera, sconfinate nella politica.

Melillo ha replicato ricordando la particolare ed elevata pericolosità della criminalità organizzata nel nostro Paese e la conseguente necessità di strumenti penetranti di indagine per fronteggiarla specificamente anche nel campo dell’economia; una pericolosità che si manifesta altresì a livello internazionale con ricchezza economica ed espansione speculativa non sempre avvertite dalla opinione politica e da quella pubblica.

Tuttavia Melillo ha riconosciuto il pericolo dei “cori mediatici”; quello di dilatare l’area di specialità della azione di contrasto a mafia e terrorismo; l’impossibilità per il giudice di “amministrare” patrimoni illeciti; la necessità di una prevenzione della criminalità in sede politica e sociale, prima e al di là del compito della magistratura e della polizia. Infine ha contestato l’esattezza di taluni fra gli episodi descritti nel libro come errori ed eccessi. Al di là dei fatti specifici, che non conosco, la valutazione severa di ordine generale di Barbano mi sembra condizionata dalla sua premessa: l’elenco di una serie di situazioni di fatto specifiche, fra loro non omogenee e diverse.

Esse sembrano idonee piuttosto a denunziare eccessi ed errori nella applicazione della legge; ambiguità nella formulazione di quest’ultima che ne consente dilatazioni interpretative; indifferenza se non insofferenza rispetto a taluni principi costituzionali nella loro interpretazione tradizionale. Peraltro destano una forte perplessità sotto il profilo della coerenza con i principi costituzionali del sistema penale: il passaggio dalla cultura della “prova” e della “condanna alla pena definitiva” per un delitto alla cultura del “sospetto” e dell’”indizio” per la misura di prevenzione; la dilatazione di quest’ultima dalla “pericolosità” della persona a quella del denaro in sé o degli eredi di quella persona; la applicazione delle misure interdittive all’impresa, per il sospetto di un suo condizionamento mafioso, rischiando di trasformare il magistrato o il prefetto – tramite i loro ausiliari – in “super controllori” dell’impresa.

Lasciano altrettanto perplessi il ricorso consolidato al c.d. “doppio binario” nelle indagini, nel processo e nell’esecuzione della pena; l’estensione delle misure di “diritto antimafia o antiterrorismo” alle ipotesi di corruzione sul presupposto di una eguale gravità dei reati in ciascuna di queste materie; l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che, per impedire giustamente la comunicazione tra un detenuto e l’organizzazione criminale all’esterno, trasforma la reclusione in un “carcere duro”; il divieto di accesso alle misure alternative al carcere per chi “non collabora” e il c.d. ergastolo ostativo. Sono tutte soluzioni che – soprattutto in momenti come questo – trovano entusiastica ed enfatica adesione: sia da parte di chi non conosce la tecnicalità, la complessità e spesso la tortuosità di tutti questi strumenti; sia da parte di chi, per professione, deve applicare quelle misure e teme che esse vengano ridimensionate.

I contrasti riemersi fra politica e giustizia e le accuse reciproche, dopo un primo momento di doveroso entusiasmo di tutti, ripropongono un interrogativo più di fondo, rispetto a quelli che si riferiscono più specificamente alla lotta alla mafia. Nell’assetto costituzionale la giustizia penale è chiaramente strutturata in una prospettiva individuale: una responsabilità personale; una tassatività del fatto previsto e punito; un trattamento personale nell’esecuzione della pena; una serie di garanzie calibrate sulla persona.

La trasformazione dell’apparato giudiziario in una struttura per affrontare un “fenomeno sociale” anziché “un fatto e una persona” evoca problemi legati alla discussione sulla funzione sussidiaria della magistratura. Essa propone una domanda di fondo, che ritorna anche in queste vicende: se le garanzie riconosciute dalla Costituzione alla persona in sede penale (sostanziale, processuale, di esecuzione della pena) siano ancora valide e rispettate; o se si diluiscano sino a sparire quando la persona è vista non in sé, ma come espressione di un fenomeno e di un sistema criminale da contrastare con ogni mezzo, per la sua pericolosità.

Tornando alla concretezza di questi giorni, mi sembra che la cattura di un pericoloso latitante non possa essere l’occasione per legittimare o al contrario per contestare il ricorso alla “panpenalizzazione” e in essa alla “pancarcerizzazione”. In uno Stato costituzionale di diritto dovrebbe prevalere il criterio della extrema ratio per la prima e soprattutto per la seconda; dovrebbero rigorosamente evitarsi eccessi ed errori nella applicazione di legge che incidono sulla dignità e sulla libertà delle persone e che pertanto non possono prestarsi a dilatazione e ad interpretazioni creative.

Posso infine augurarmi che la vittoria della legalità con la cattura di Matteo Messina Denaro, realizzata grazie all’impegno e alla capacità di magistrati e carabinieri, non diventi l’ennesima occasione per una strumentalizzazione – sia di adesione, sia al contrario di opposizione – delle risposte agli interrogativi ricorrenti sulla efficacia e prima ancora sull’ammissibilità e sui limiti degli strumenti legislativi acquisiti con l’esperienza in quella lotta.

Sono la ricerca del denaro, come segnalato con intuizione e intelligenza da Giovanni Falcone (per la mafia); la genialità investigativa di Carlo Alberto Dalla Chiesa (per il terrorismo); l’utilizzo nelle indagini di strumenti tecnologici sempre più progrediti per vincere l’omertà fra cui le intercettazioni, con un loro rigoroso controllo giudiziario; le tecniche finanziarie sempre più sofisticate per svelare le tecniche di riciclaggio del “denaro sporco” e della sua infiltrazione nell’economia sana. Lo dobbiamo alle vittime incolpevoli della criminalità organizzata, ai magistrati e a tutti gli altri “caduti nell’adempimento del dovere” della lotta ad essa.

(da “Il Sole 24 Ore”)

Il “nostro” cinema, Ugo Tognazzi

Il “nostro” cinema, Ugo Tognazzi

di Gualtiero Donati  

Ugo Tognazzi: il suo primo vagito poco più di cent’anni fa, il 23 marzo 1922 in quella Cremona famosa per il suo “Torrazzo”, i torroni, le mostarde, Stradivari; anche per essere stata la città di Roberto Farinacci, uno dei “duri” del fascismo. Un giovanissimo Ugo, come molti (Giorgio Albertazzi, Walter Chiari, Dario Fo, Marcello Mastroianni, Enrico Maria Salerno, Raimondo Vianello, per dire dei primi che vengono in mente), aderisce alla Repubblica di Salò. Capita da giovani di fare sciocchezze (spesso anche “dopo”). Certo provarlo a immaginare l’Ugo in orbace fa lo stesso effetto, comico e patetico, di Primo Arcovazzi, il protagonista de “Il Federale” di Luciano Salce…

Non solo attore. Tognazzi è stato anche non disprezzabile regista, sceneggiatore teatrale, cinematografico, televisivo. Con Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, un pokerissimo del cinema italiano. Ci lascia presto: 68 anni appena…, il 27 ottobre 1990.

Giustamente lo si ricorda con Vianello, coppia di grande successo che dal 1954 al 1960 lavora per la neonata Rai Tv; e per tanti film: con Alberto Bevilacqua (“La Califfa”, 1971; “Questa specie d’amore”, 1972); con Bernardo Bertolucci (“La tragedia di un uomo ridicolo”, 1981, gli vale la Palma d’Oro al Festival di Cannes). Ancora: “La marcia su Roma” (1962, Dino Risi); il citato “Il federale” (1961 di Salce); la trilogia “Amici miei” (1975, 1982, 1985), e “Il Vizietto” (1978, 1980, 1985); Molti i film da regista: “Il mantenuto”, 1961; “Il fischio al naso”, 1966; “Sissignore”, 1968; “Cattivi pensieri”, 1976; “I viaggiatori della sera”, 1979). Il tanto teatro: da “I Sei personaggi in cerca d’autore”, a “L’avaro”, e “M. Butterfly”.

La dice lunga, sui tempi che sono appena “ieri”, la censura televisiva subita quando, il 25 giugno del 1959, con Vianello mette in burla l’incidente capitato la sera prima alla Scala di Milano, taciuto dai giornali: il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi vuol essere galante con una signora, e cade rovinosamente a terra per la sottrazione della sedia, sotto lo sguardo di un divertito Charles De Gaulle. Tognazzi e Vianello ripetono la scena in TV: Vianello toglie la sedia a Tognazzi, che cade; Vianello gli grida: «Chi ti credi di essere?”. La sera stessa la trasmissione è cancellata, cacciato il direttore della sede di Milano.

Vent’anni dopo, nel 1979, Tognazzi prende parte a uno dei più clamorosi «scherzi» mediatici: si fa fotografare ammanettato da finti poliziotti. Lo sberleffo è organizzato dal settimanale satirico “Il Male”: tre finte edizioni de “Il Giorno”, “La Stampa”, “Paese Sera”, titoli cubitali annunciano l’arresto dell’attore in quanto “grande vecchio” delle Brigate Rosse. Della “Direzione strategica” fa parte anche Vianello. L’ispettore di polizia è “interpretato” da un serissimo Sergio Saviane; Vincino, geniale disegnatore morto troppo presto, è uno dei poliziotti che “arrestano” Tognazzi.

C’è poi l’intervista-sberleffo in diretta TV a un Pippo Baudo che quasi sviene: Tognazzi auspica la liberalizzazione della marijuana; denuncia lo scandalo dell’interminabile detenzione di Toni Negri; infine si pronuncia per la legalizzazione della prostituzione.

Una cosa non viene ricordata: la sua iscrizione al Partito Radicale. È il 1986. Il partito è allo stremo; chiede a chi crede nelle battaglie che conduce, di iscriversi. Accorrono dalla Francia Eugène Ionesco e Marek Halter; poi Lindsay Kemp, Michele Pantaleone, che apre una sezione radicale nella sua Villalba, cuore di una Sicilia ancora appestata di Cosa Nostra; si iscrive Sandra Mondaini, che d’ufficio «arruola» il marito Vianello. Tra i tantissimi anche Tognazzi. Al riguardo, un aneddoto divertente: si iscrivono anche Vincenzo Andraous, Cesare Chiti e Giuseppe Piromalli: ergastolani che hanno praticamente infranto tutti i reati possibili contemplati nel codice penale. Iscrizioni «imbarazzanti» per tutti, non per Pannella che anzi le strombazza ai quattro venti. Qualche giornale pubblica la loro fotografia assieme a quella di Tognazzi; lui si adonta per l’accostamento, minaccia sfracelli, gli fai il nome di Pannella e partono raffiche di invettive e anatemi. Come finisce la storia? L’arrabbiatura dura una settimana; poi Tognazzi si ri-iscrive, con tutta la famiglia… Ecco: Tognazzi è stato anche questo.

Benigni, condannato da un capolavoro

Benigni, condannato da un capolavoro

di Giancarlo Governi   

Rubino Romeo Salmonì, l’ultimo ebreo romano sopravvissuto ad Aushwitz, che ispirò a Roberto Benigni “La vita è bella”, ci fa tornare alla memoria il grande film di Roberto. Salmonì, che aveva 23 anni quando fu deportato nel campo di sterminio, dopo la terribile trafila di Via Tasso, del campo di raccolta dei deportatati di Fossoli gestito dai fascisti repubblichini, servi dei nazisti, dopo quasi 70 anni, fino alla sua morte ancora andava in giro per le scuole a tenere viva la memoria di quell’orrore. La cosa che colpì Roberto fu il racconto dei bambini che Rubino aveva incontrato nel campo dell’orrore e che in fila per tre, stringendo al petto i loro poveri giocattoli, si avviavano allegri, come in un gioco, verso la camera a gas. Prima di morire, Rubino aveva scritto un libro che aveva intitolato “Ho ucciso Hitler”, perché – diceva – “ho sconfitto il mostro nazista con la mia voglia di vivere che è stata più forte della sua voglia di distruggere”.

Benigni, fra i tanti racconti dei sopravvissuti che costituiscono una immensa e straordinaria letteratura, fu certamente colpito dal racconto che faceva Salmonì, di quei bambini che andavano alla morte giocando, e il risultato fu lo straordinario film in cui il papà fa credere al figlioletto di essere dentro un grande gioco per preservarlo dall’orrore. Ricordo quando vidi per la prima volta “La vita è bella” (dico la prima volta perché è uno dei film che ho visto di più, insieme a “Ladri di biciclette”, “Tempi moderni”, “Fifa e arena” e “La grande guerra”). Mi aveva invitato Roberto a una proiezione privata e lo vidi in anteprima, prima della trionfale uscita nelle sale. Furono due ore di grande emozione, durante le quali ridemmo come poche volte ci era capitato, ci emozionammo, ci indignammo e piangemmo. Sì, confesso che quella volta Roberto che mi aveva fatto tanto ridere mi fece piangere molto. “Vincerai l’Oscar” dissi a Roberto e lui: “Lo so che mi vuoi bene, però non esagerare… l’Oscar addirittura!” Io l’avevo detto senza riflettere perché in quel momento volevo augurargli la cosa più bella che si possa augurare a un cineasta: la sfilata nel red carpet, il presentatore che urla il suo nome e lui che sale sul palco a ritirare l’ambita statuetta senza volto. E poi le dichiarazioni studiate e imparate a memoria: dedico questo riconoscimento a mia moglie ai miei figli ai miei genitori al produttore e via di seguito. Si potrebbe scrivere un libro corposo e forse qualcuno lo ha fatto veramente, con le dichiarazioni dei vincitori, più o meno originali. Quando gli augurai l’Oscar Roberto non ci pensava proprio che quel trionfo sarebbe veramente arrivato nella sua vita. E quando l’Oscar arrivò Roberto si distinse anche nei festeggiamenti e nelle dichiarazioni. Quando la Loren si mise a urlare il suo nome, Roberto saltò sulle poltrone, quasi sulle teste degli spettatori e poi fece la più sorprendente e poetica delle dediche: “dedico questa gioia ai miei genitori che mi hanno fatto il grande dono della povertà”.

Parlami seriamente del film” mi disse Roberto “e lascia stare l’Oscar”. Mi ricordo che gli citai Chaplin e in particolare “The Kid” soprattutto perché il suo Guido mi ricordava il grande Vagabondo che cerca di nascondere il bambino che gli è stato affidato alle autorità che vogliono portarlo nell’orribile orfanotrofio, un vero e proprio lager, che il piccolo Charlie aveva sperimentato a quattro anni quando la sua mamma era stata ricoverata in manicomio. “La vita è bella”, come “The Kid”, è tutto un alternarsi di emozioni forti, comiche e drammatiche. Nel film di Benigni ci sono momenti comici da storia della comicità, come la lezione sulla razza ariana, battute straordinarie come quella con cui Guido risponde al figlio che gli ha chiesto perché in un negozio è vietato l’ingresso agli ebrei. “Perché si vede che gli ebrei gli sono antipatici” risponde “a te chi ti sta antipatico? I Cartaginesi? E allora nel tuo negozio ci scrivi vietato l’ingresso ai Cartaginesi”.

Roberto nei suoi film racconta gli archetipi della comicità. Non mi sembra che sia stata fatta mai una lettura della sua opera in questa chiave. “Johnny Stecchino“ si basa sull’equivoco del doppio che funziona dall’epoca di Plauto (“Sosia”) e che arriva fino a lui passando attraverso Goldoni (“I gemelli veneziani”) e Alberto Sordi (“Il Marchese del Grillo”, il Marchese e il carbonaio, il suo doppio). “Il mostro” è basato sulla paura del diverso, della degenerazione estrema della natura umana, su cui tanto cinema si è espresso, a cominciare da “Murder” di Georg W. Pabst. “La vita è bella“ discende dalla lezione chapliniana in cui il dramma si maschera con il riso, una fusione che qui diventa totale e perfetta soprattutto nei momenti più drammatici, quando il papà traduce le parole minacciose e severe del guardiano nazista come il regolamento del gioco che stanno per intraprendere, fino a quando il piccolo Giosuè, dalla feritoia di uno sgabuzzino dalla feritoia di uno sgabuzzino, vede il suo papà portato alla morte, che cerca fino all’ultimo di farlo ridere.

Il film di Benigni, uno dei massimi capolavori del cinema italiano, è stato ispirato dalla memoria di Rubino Romeo Salmonì e rimarrà nella storia degli anni e dei secoli a venire a testimoniare l’orrore che gli uomini hanno saputo provocare su altri uomini ma che non ha saputo vincere sulla capacità degli uomini di vivere nonostante tutto. È questo l’assunto del film (come pure quello del libro di Salmonì) che si svela fin dal titolo, che è mutuato da una frase di Trosky che sta aspettando i killer di Stalin e che, vedendo la moglie in giardino che sta curando le rose, scrive: “nonostante tutto, la vita è bella”.

La vita è bella ha dato a Roberto le più grandi soddisfazioni ma sembra lo abbia condannato ad un confronto con un’opera impareggiabile. E soprattutto sembra che “La vita è bella” lo abbia come paralizzato, quasi trasformato ad un ruolo di attore (come nel Geppetto del “Pinocchio” di Matteo Garrone) e ad un ruolo di grande sapiente che ci racconta la grande letteratura. Il “Benignaccio” di Cioni Mario è oramai lontano anni luce. Ma questo sembra il destino di tutti i grandi comici che, di solito, da vecchi non fanno più ridere. Fa eccezione Totò che, a me personalmente ma non solo, fa ridere più da vecchio.

iMagz